Con la fine dell’Impero Romano d’Occidente, nel 476, il Salento diverrà area di pertinenza dei più longevo Impero Romano d’Oriente, e ciò porterà ad un radicale mutamento dei comportamenti sociali, in particolare con l’abbandono dei grandi insediamenti urbani, a favore di piccole comunità dislocate nelle campagne.
Sarebbe comunque un errore valutare questo come un regresso della vita civile: infatti, le forme organizzative dell’urbanistica romana, che avevano concentrato grandi masse di individui nei maggiori centri, non poterono più essere garantite da Bisanzio, e ciò produsse il riorganizzarsi dei rapporti sociali ed interpersonali, in forme meglio capaci di assolvere alle necessità collettive. Nasceva così la civiltà delle grotte, che si diffonderà In tutto il Salento, pur favorita dalla geomorfologia del territorio. Dilaga in questo periodo, anche nel Meridione d’Italia, il monachesimo eremitico già iniziato in oriente (270) con Antonio, basato sull’anachoresis (fuga dal mondo) e sull’askesis (contemplatività), che forme estreme trovò nei “dendriti” e negli “stiliti”, sfociando poi, con Pacomio, nell’eremitismo monastico comunitario, la cui regola fu codificata nel IV secolo da S. Basilio il Grande (330-379), vescovo di Cesarea di Cappadocia e dottore della Chiesa.

Si diffusero così i ‘lavrai’, monasteri costituiti da celle e grotte individuali organizzate attorno ad un luogo comune di culto, che divennero sede per la celebrazione dei riti domenicali. Intanto, l’iconoclastia diffusasi oltremare a partire dal 725 per l’iniziativa di Leone III l’Isaurico (717-741), successore di Teodosio al trono di Bisanzio, la quale ebbe a proseguire sino a Teofilo I (829-842), e la conseguente persecuzione che andò perpetrandosi verso la popolazione greca ad essa ribellatasi, da un lato produsse fenomeni di culto “nascosto”, da cui lo straordinario complesso sotterraneo della Cappadocia, dall’altro fenomeni migratori di monaci, perciò detti “iconoduli”, che provenienti da quelle aree, nel Salento trovarono un approdo ideale.
Fiorisce così una forma d’arte sacra devota ai santi del culto bizantino, come Stefano, Nicola, Biagio, Vito o della Madonna di Costantinopoli, che produrrà stupendi capolavori non solo nelle forme ipogee delle cripte, ma anche in chiesette dalla foggia orientaleggiante, come quella a croce greca di S. Pietro, presso Otranto, che cominciarono a costellare il territorio. E’ questo il periodo che vede il Salento configurarsi sul modello dei rito greco, con i papades, che divennero presto importanti referenti, sia sul piano religioso che su quello civile, per la comunità locale.
Il 1054 vede compiersi lo Scisma d’Oriente, con la bilaterale scomunica tra Papa Leone IX ed il Patriarca di Costantinopoli, le cui conseguenze perdurano tutt’oggi.
Il modello greco, stabilmente affermatosi in queste province, avrà ancora continuità per secoli, sino alla decadenza prodottasi con il sacco di Otranto dei 1480, la cui curia aveva aderito allo scisma già con il vescovo Pietro III, nonché con il concilio di Trento dei 1545 convocato sulla scorta della frattura prodotta dall’eresia protestante, nella circostanza del quale si provvide ad un riassetto centralistico, sul modello della monarchia assoluta, delle istituzioni religiose. E’ del 1583 il sinodo diocesano presieduto dall’arcivescovo di Otranto Pietro Corderos, con il quale si sancì l’ufficiale abbandono dei rito greco nel Salento, il quale, tuttavia, ancora ebbe seguito sino al XVIII secolo…

E’ in questo movimentato quadro che si inseriscono due capolavori assoluti dell’arte basiliana: la chiesa rupestre dei S.S. Stefani e la cripta di S. Maria degli Angeli, rispettivamente a Vaste ed a Poggiardo.
La chiesa rupestre dei S.S. Stefani sorge non distante dal sito delle chiese d’epoca tardo romana e della necropoli paleocristiana, con il cui culto essa probabilmente realizza una continuità. Scavata nella pietra, è di forma basilicale, con tre navate concluse da absidi, scandite da due file di tre pilastri a sezione quadrangolare; lungo il perimetro numerose sono le nicchie decorate da affreschi di diverse epoche, dal X al XVI secolo, questi ultimi spesso sovrapposti a dipinti più antichi. L’ingresso presenta tre accessi ad arco, solo uno dei quali ancor oggi agibile.
Attorno al sito la presenza di grotte, parte delle quali annesse ad una masseria, rende presagibile l’esistenza di un vasto insediamento monastico rupestre.Sulla sinistra dell’ingresso il ciclo pittorico, assai complesso, esordisce con una Vergine con Bambino, seguita da un arcangelo e dall’effigie di S. Michele; sul lato destro apre invece la figura della Madonna di Costantinopoli, affiancata da S. Francesco e S. Antonio, seguita da S. Pietro, S. Caterina, S. Nicola e da due altri di difficile identificazione, forse i Santi Giorgio e Demetrio.
Sul fondo delle navate, nelle rispettive absidi ricurve, a destra la raffigurazione di Cristo fra gli Arcangeli Michele e Gabriele, a sinistra S. Nicola tra S. Basilio e S. Gregorio Nazianzeno, al centro la Vergine e S. Giovanni in una scena dell’Apocalisse; tra le absidi le figure di S. Eligio e di S. Antonio Abate. Numerosi altri affreschi decorano le superfici dei pilastri, con le Immagini, tra le altre, di S. Filippo, S. Andrea, S. Pantaleone, S. Martino e, sulla superficie rivolta all’ingresso dei due pilastri centrali, le figure di S. Stefano, che danno il nome alla cripta. La cripta di S. Maria degli Angeli, dopo secoli di oblio, fu riportata alla luce nel 1929, entro i confini dell’abitato di Poggiardo, sotto la sede stradale di Via Don Minzoni (nei pressi della Chiesa Matrice).
L’architettura, anche questa di forma basilicale, è a tre navate, le quali si concludono in altrettante absidi curve, con la volta sorretta da quattro pilastri, due dei quali crollati poco dopo il rinvenimento della struttura. Ben netta è la separazione tra il “naos”, parte antistante la zona absidale, ed il “bema”, appunto la sede absidale, separazione realizzata mediante un’iconostasi litoide che metteva in comunicazione le due zone attraverso angusti passaggi. Singolare la posizione fuori asse della parete di fondo, la quale, dopo lo scavo, fu probabilmente oggetto di un aggiustamento nella direzione più tipica della liturgia, ossia verso est. Al momento del rinvenimento lo stato della cripta si mostrava estremamente compromesso, e pertanto, con una coraggiosa iniziativa, gli affreschi furono separati dalle pareti di supporto, restaurati, e quindi nel 1975 ricollocati in una struttura-museo ipogea, appositamente realizzata in Piazza Episcopo, all’interno della quale il perimetro originario della cripta è stato tracciato sul pavimento, e gli affreschi montati su pannelli nella posizione originaria.

Se ciò da un lato contribuì ad una migliore conservazione dei materiale iconografico, dall’altro determinò il completo abbandono della struttura originaria, che solo in questi anni è stata resa oggetto di opportuni restauri, nonché di un’interessante iniziativa: al suo interno verranno infatti collocate copie degli affreschi, refrattarie all’azione degli agenti atmosferici, ottenendo così un doppio percorso: le opere originali in un ambiente salubre e protetto, la parte architettonica resa di nuovo agibile e ricorredata del suo ciclo pittorico. Come lasciano supporre le numerose grotte ancora esistenti sotto le abitazioni dei centro storico, anche questa cripta doveva costituire parte di un vasto insediamento monastico, come tipico dei monasteri a “lavrai”, e probabilmente anche di un villaggio rupestre con insediamenti civili. Particolarmente ricco il ciclo degli affreschi: nel “naos”, sulla parete a destra dell’ingresso, figurano racchiuse In riquadri policromi le immagini di un santo vescovo (forse San Nicola), San Giorgio nell’atto di trafiggere il drago, e, queste tutte in dittico, San Gregorio Nazianzeno e San Giovanni Teologo, San Anastasio e Cristo con ai piedi la Maddalena, San Demetrio e San Nicola.
Le pareti poste a separare il naos dal bema vedono le figure di San Giovanni Teologo a destra e San Giovanni Battista a sinistra; degli affreschi che decoravano il pilastro crollato non resta traccia; ancora visibili invece quelli che decoravano il pilastro ricollocato nel museo, che rappresentano San Giorgio, una Vergine con Bambino, ed un santo ignoto. Ancora a sinistra del naos sono raffigurati San Michele e San Giuliano e, nella parte terminale una Vergine con Bambino e San Nicola. Nel bema di particolare bellezza è l’abside centrale, raffigurante una Vergine con Bambino posta tra gli Arcangeli; l’abside di sinistra contiene un Arcangelo Michele, mentre sui setti tra le tre absidi sono raffigurati a sinistra Santo Stefano ed a destra San Lorenzo; sulla parete di sinistra i Santi Cosma e Damiano.
Di particolare rilevanza è che alcune delle suddette figure, compresa quella del Cristo, siano rappresentate in posizione benedicente, ma alla maniera greca, ossia con solo due dita della mano, anziché tre, affermazione esplicita di aderenza allo scisma d’oriente.